Teatro

FIUME, AIDA

FIUME, AIDA

AIDA  di Giuseppe Verdi
H.N.K. “IVANA pl. ZAJCA” (Teatro Nazionale Croato “Ivana Zajca”)
Rijeka/Fiume (22/02/2013)

Gli anni dal 1860 in poi, costituiscono tempo di ripensamento e di approfondimento per un Verdi risoluto nel non farsi più assillare da troppi impegni. Il “Macbeth” del 1847 viene riveduto nel 1864-65 per le scene parigine del Théâtre Lyrique; il “Simon Boccanegra”, dopo un’ultima ripresa del 1859, viene prudentemente accantonato dal suo autore e sarà ripresentato solo più di vent’anni dopo, nel marzo del 1881, dopo essere sottoposto ad un profondo ripensamento. In definitiva, si tratta di due lavori sostanzialmente eguali agli originali nel contenuto musicale, ma assai diversi da quelli se presi nella forma esteriore. Quanto alle novità, “La forza del destino” terminata a novembre 1861 ma presentata a San Pietroburgo un anno dopo, il “Don Carlos” nella originale versione parigina del marzo 1867 (come pure nelle ‘varianti’ italiane del 1884 e del 1886), e quella “Aida” pensata per il Teatro dell’Opera cairota dove vide la luce sul finire del 1871, sono tre partiture che mostrano in comune – oltre alla consueta fantasia e inventiva melodica - una strumentazione sempre più raffinata: partiture splendide nei mezzi impiegati, variegate nei colori, che rivelano ad ogni passo sonorità e timbri ricercatissimi. Innegabile che un Verdi ormai pienamente maturo quanto a mezzi tecnici, sia divenuto osservatore attentissimo di tutte le novità che apparivano sulle scene dei teatri francesi, e che ne faccia gran tesoro; inevitabile poi che diventi sempre più esigente con i cantanti così come con l’orchestra, da lui piegata ad effetti strumentali del tutto nuovi.
Basterebbe andar a vedere la pignola ricerca di un direttore e di interpreti adatti per la prima italiana della sua “Aida”, testimoniati da un rapporto epistolare con Giulio Ricordi contenente osservazioni e richieste che sono sotto questo punto di vista illuminanti: persino la collocazione precisa in buca degli strumenti deve rispondere alle sue nuove esigenze. Prendiamo ad esempio, il mirabile preludio notturno del terzo atto, nel quale la magica atmosfera lunare sulle rive del Nilo viene restituita tramite sedici battute di strumentazione geniale, pur nella semplicità di un sol replicato in salti d’ottave dai violini in sordina, sopra gli armonici dolcissimi dei violoncelli, con l’intervento di un solitario flauto solo, a suggerire un canto di pastore sopra il placido scorrere dell’acqua nella calda notte egiziana. Tanta accuratezza colpì allora persino un fervente apostolo wagneriano come il compositore e critico Louis-Etienne Reyer, che apprezzò pubblicamente sulla stampa francese la sensibilità armonica, le inaspettate modulazioni, l’originalità delle linee melodiche, la ricchezza della tavolozza strumentale. Non tutti però la pensavano così: dopo la prima milanese di “Aida”, caddero su Verdi gli strali di molta critica nostrana che lo accusava addirittura proprio di eccessivo «wagnerismo», inteso ovviamente in senso negativo. Al punto che il compositore infastidito da tali giudizi, in una lettera al Ricordi se ne usciva con un’amara ed ironica considerazione: «Bel risultato dopo 35 anni di carriera, finire Imitatore !!!».
Fu proprio una edizione di “Aida” ad inaugurare il 3 ottobre 1885 il nuovissimo Teatro Comunale di Fiume – questa la primitiva intitolazione del Teatro “I. pl. Zajca” - tra grandi festeggiamenti popolari; ed ora il titolo ritorna su queste scene con la direzione di Antonello Allemandi, nell’ambito di una coproduzione con il Teatro dell’Opera di Zagabria, per celebrare degnamente l’anno verdiano insieme alle riprese di tre produzioni delle scorse stagioni, vale a dire quelle di “La traviata”, “Nabucco” e “Macbeth”. Meglio di tanti teatri italiani, verrebbe da dire…
Nella capitale croata questa nuova versione di “Aida” è andata in scena già a metà gennaio, non senza destare molte polemiche per la provocatoria regia di Kovalik Balázs, di cui riferiremo poi; parliamo invece prima della musica.
Intanto, la scelta di unire due a due gli atti, prevedendo un solo intervallo, ha giovato molto alla compattezza della narrazione; ma quello che più contava in questa edizione fiumana era la efficace concertazione di Antonello Allemandi, lucida, calibrata, sempre molto attenta. Perché se “Aida” è una specie di vivace affresco pittorico, pervaso da un esotismo egiziano tutto reinventato in salsa europea, è pur vero anche che ogni buon direttore sa come legare scena a scena, rendendo evidenti quei nessi logici – collegamenti prima musicali, e poi teatrali – con il quale Verdi seppe organizzare un disegno drammatico un po’ dispersivo in un quadro assolutamente perfetto. E quanto riesce proprio al maestro milanese, che tiene sempre saldamente in mano le redini del racconto senza sbandamenti, osservando con la necessaria precisione ogni segno espressivo; e  che riesce a regalare preziosismi sonori e finezze cromatiche, e nel contempo abbandonarsi alle impetuose ondate melodiche. E in questo tragitto un più che valido supporto gli è stata l’orchestra del  Teatro Zajca, apprezzabile nella morbidezza degli archi, eccellente come nel nitore dei fiati; e la felicità del loro rapporto è stata dimostrata dal vivo apprezzamento che alla fine la compagine fiumana ha espresso nei confronti della sua guida musicale.
Quanto ai cantanti, il bravo soprano croato Kristina Kolar ha avuto il merito di esprimere tutti i patemi di un’Aida angelica e melanconica, mettendo in campo dei bei accenti intensamente drammatici, supportati da una condotta vocale corretta ed incisiva: partiva molto bene con «Ritorna vincitor!», era vincente nel confronto con la rivale Amneris, al III atto risultava efficace nel dialogo con il padre prima, e nel fatale duetto con l’amato poi; e continuava persuasiva in tutto il Finale. Molto meno convincente mi è parso invece il Radamés di George Oniani, perché se la voce è interessante per la bella luminosità e il felice squillo, non sempre appare ben amministrata: il tenore georgiano infatti tende a dilatare troppo i centri, apre il suono dove non si deve (cioè in zona di passaggio); ed è povero nel fraseggio e nelle tinte, negando la necessaria varietà di espressione al suo personaggio. E poi, mi pare del tutto inutile tenere una lunga corona alla fine di «Se quel guerrier io fossi», se poi si deve troncarla di netto senza smorzare, come se il fiato mancasse all’improvviso. Quanto alla Amneris un po’ scombinata di Tea Demurishvili, c’è poco da dire: nelle sue mani il personaggio risulta troppo enfatico, la voce appare aggressiva ed appesantita (specie nell’ottava inferiore) e nell’insieme mi pare sia incapace di esprimere le necessarie finezze del ruolo della figlia del Re. Vigoroso nel complesso l’Amonasro del baritono zagrebese Vitomir Marof – buon interprete di tanti ruoli verdiani - anche nel momento di «Ma tu ore, signore possente» reso con incisività e giusta commozione, e nel concitato duetto con Aida; da lodare i due bassi, sia lo statuario e solido Re di Siniša Štork, sia l’implacabile e ferrigno Ramfis di Ivica ÄŒikeš. Il messaggero – un messo ferito che giunge in carrozzella – era Sergej Kiselev; la Sacerdotessa la brava Anamarija Knego. Un giusto apprezzamento va espresso anche all’efficiente coro del Teatro Zajca, per la bella preparazione e per la perfetta dizione.
Ed arriviamo allo spettacolo in sé, non facile da descrivere. La scena ruotante di Csaba Antal mostra un insieme di alte scale simmetriche, con ambienti che mutano di continuo dando al pubblico un voluto senso di irrequietezza; la regia di Kovalik Balázs è un po’ dissacratoria, ma di per sé procede abbastanza bene sfruttando l’ideale iniziale di un Egitto moderno in cui vige una rigida dittatura militare, alleata ad una folta casta sacerdotale: tutti i personaggi (militari, soldatesse e sacerdoti) sono però rappresentati dal costumista Mári Benedek con curiosi abiti nei quali la severità del colore nero è accompagnata o addirittura sostituita da accessori di uno squillante rosa fucsia, come a mettere in ridicolo l’ufficialità dei loro ruoli. Quanto alla gente di corte, la troviamo vestita di bianco ma con cravatte o accessori rosa shocking. In voluto contrasto, gli etiopi sono vestiti con semplici abiti dai decori floreali, che evocano una ‘naturalità’ primitiva. Però alla fine il regista ungherese mi sembra mettere troppa carne al fuoco, impegnato a procedere per accumulo continuo di idee – qualcuna buona, altre meno - invece che per approfondimento, così che spesso lo spettatore viene travolto da un’indigestione di trovate e di personaggi di ogni tipo – comprese quattro divinità tutte rosee ispirate a Seth, il dio dei morti, che girano muti sulla scena -  non sempre pertinenti al soggetto in trattazione. Insomma, in questo modo quello che c’è di buono si disperde tra cose del tutto inutili.
Interessante per esempio l’idea sostituire le danze dopo l’entrata trionfale del II atto con un’orgia frenetica, nella quale i prigionieri sono violentati e torturati; molto meno l’impiego di ballerini e ballerine, messi lì ad accompagnare il trionfo del vittorioso condottiero, che sembrano usciti dalle “Zigfeld Follies” della Broadway di un tempo. Del tutto insolita, ma non disprezzabile, l’idea di congegnare al posto della consueta e languida danza delle sacerdotesse un olocausto umano – con tanto di lungo rito sacrificale - prima di consegnare la spada del condottiero a Radamès, umettata dal sangue della vittima. Si dovrebbe obiettare che questo procedimento era tipico dei sacerdoti aztechi, certo non di quelli di Osiride; ma credo che questo non interessi poi molto a Kovalica. Non male anche l’idea di rappresentare in scena anziché dietro le quinte il processo a Radamés, circondato da una cerchia di spietati sacerdoti, e percosso dalle guardie ad ogni accusa di «Traditor!». Insomma, potendo idealmente sottrarre i molti eccessi visivi e certe fastidiose banalità – penso ai pezzi di manichini portati in scena dagli etiopi vinti - questa regia potrebbe conseguire maggiore coerenza e la giusta logicità. Le modeste coreografie, affidate ad alcuni membri del corpo di ballo del teatro fiumano, portavano la firma di József Hámor.